Visitpiana è un progetto nato per la difesa e la valorizzazione del patrimonio culturale che rappresenta con tutte le sue sfaccettature l'identità unica di Piana degli Albanesi.
Senza dubbio la lingua arbëresh rappresenta la parte più importante di questa identità e come sappiamo tutti oggi la lingua è seriamente minacciata.
Abbiamo seguito fin dall'inizio il progetto "Arbor" del nostro concittadino Giulio Cusenza che nella lontana università di Tubinga ha trovato le condizioni per idearlo e realizzarlo.
Oggi Arbor è uno strumento concreto e potrebbe rivelarsi un modo concreto di salvaguardare l'arbëreshe e per questo visitpiana.com ha deciso di condividere con voi ed integralmente la visione di Giulio Cusenza e di "Arbor" .
Buona lettura
Salvatore Vasotti
founder / director
La visione dietro Arbor
Introduzione
Avere a che fare con una lingua come l’arbëresh non è semplice: non è mai parlato da solo, ma sempre mischiato a italiano e lingue regionali (siciliano, calabrese, pugliese...). Pochissimi sanno scriverlo, e non sono neanche tutti d’accordo sul come. E poi come si fa con tutte le parole perdute? E come si fa con le diverse parlate arbëreshe delle varie regioni?
Bisogna prendere tante scelte. In questo spazio parlerò della visione che ho sviluppato durante la realizzazione di Arbor e delle ragioni che la sostengono.
Come scrivere l’arbëresh
La tendenza generale che ho riscontrato è che chi sa scrivere in arbëresh usa l’alfabeto normalizzato nel congresso di Monastir nel 1918 per codificare i suoni della propria parlata. Secondo questo approccio, a Piana degli Albanesi si scriverà jic ju ngul, mentre in altri luoghi sarà mantenuta la pronuncia originale jec u ngul. Quest’approccio ha il grande vantaggio di minimizzare la distanza tra lo scritto e il parlato, ma è soggetto a criticità non trascurabili:
Le parlate di diversi comuni presenteranno grandi differenze nella forma scritta.
All’interno dello stesso comune ci sono differenze di pronuncia tra parlanti diversi (per es. gjisë e gjithë).
Non è chiaro il meccanismo per gestire la Ë muta: non scriverla o guardare alla forma storica?
Diventa molto difficile la produzione di qualsiasi dizionario o strumento linguistico, non essendoci una grafia esatta per ogni parola.
È per questi motivi che ho preferito un altro approccio: fare riferimento alla forma storica delle parole, anche quando questa si discosta tanto dal parlato. Forse per un italiano è difficile accettare che le parole non devono per forza essere scritte come sono pronunciate, ma è quello che succede tutto il tempo nel mondo anglofono: caramel è /ˈkærəməl/ in Regno Unito e /ˈkɑːrməl/ negli U.S.A., nonostante sia scritto identico. E quindi se a Piana degli Albanesi si imparerà che "drëngonj" si scrive ndëlgonj, sarà molto più facile per gli altri arbëreshë e per gli albanesi oltre l’Adriatico leggere quello che si scrive a Piana. Inoltre, le differenze tra pronuncia e forma scritta storica rispondono nella maggior parte a precisi fenomeni fonologici e sono dunque prevedibili (un fenomeno che ho notato, per esempio, è la chiusura delle vocali dopo il suono /j/ nella parlata di Piana. Vedi il sopracitato jec → jic o ancora ujët → ujit). Va comunque detto che quest’approccio non è categorico e può ammettere varianti di una parola laddove si ritiene necessario.
In conclusione, questo metodo, al prezzo di discostarsi un po’ dal parlato, riesce a risolvere tutte le grandi criticità del precedente, e ciò è indispensabile se si ha a cuore il progetto di una koiné arbëreshe.
Cos’è l’arbëresh?
La decisione presa nel paragrafo precedente risolve molti problemi, ma pone un’enorme domanda: cos’è l’arbëresh? Infatti per fare riferimento alle “forme storiche” delle parole è indispensabile capire quali sono le parole arbëreshe. E se manca una parola come facciamo? Nel suo interloquire quotidiano un arbëresh fa uso di diversi tipi di parole. Vediamo di fare una valutazione:
Parole “native”, ovvero quelle parole di chiara origine albanese usate dai nonni dei nostri nonni. Per queste parole il problema non si pone: è arbëresh.
Parole ben integrate, ovvero parole più recenti derivate dall’italiano o dalla lingua regionale, ma morfologicamente perfettamente integrate (per es. adunarem, dal siciliano addunarisi, “accorgersi”). Considero queste parole arbëreshe a pieno titolo. Sarebbe come dire che “ambulanza” non è una parola italiana perché deriva dal francese ambulance.
Parole parzialmente integrate, ovvero prestiti che però non sono stati integrati morfologicamente (per es. telefonu). Per queste parole spesso si ricorre a strategie nuove rispetto alla classica grammatica arbëreshe (se një djal diventa djali alla forma determinata, një telefonu diventa u telefonu). In realtà questi nuovi meccanismi farebbero parte della moderna grammatica arbëreshe e queste parole potrebbero considerarsi integrate, ma auspicherei in questo caso un’integrazione più piena come nel punto 2. Insomma, con queste parole bisogna fare particolare attenzione, perché potrebbero rendere molto difficile la realizzazione di una koiné.
Parole estranee, spesso usate in intere porzioni di frase intercalate in un’altra lingua (italiano o regionale). Per esempio, “sot çajta l’ammortizzaturi dâ machina”. In questo caso non si parla di arbëresh, ma di code-switching tra arbëresh e altre lingue.
Queste considerazioni sono state indispensabili per la creazione del Correttore sulla base delle frasi di Corpus Arbëresh. Sono linee guida senza le quali non avrei potuto fare uso della stragrande maggioranza delle frasi donate, visto che mi sarei dovuto limitare solo a quelle senza prestiti.
Si apre però un problema. Infatti, se accettiamo i prestiti, come facciamo a individuare una koiné arbëreshe? L’arbëresh siciliano avrà ovviamente prestiti diversi rispetto a quello pugliese o calabrese. Anche in questo caso prenderei ad esempio l’inglese: ci sono tantissime parole diverse tra inglese di Gran Bretagna e inglese americano (per es. rubbish e garbage per “spazzatura”), ma ciò non ostacola la comunicazione più di tanto. Ecco, anche le diverse parole di varie parlate arbëreshe non dovrebbero porre enormi problemi. E se si dovesse davvero instaurare una comunicazione stabile tra le realtà arbëreshe avremmo anche modo di osservare uno scambio di queste parole e un avvicinamento delle varie parlate.
L’arbëresh è incompleto?
Sì, va ammesso. Nessun arbëresh sarebbe oggi in grado di tradurre questo testo senza usare un manuale di necromanzia (altresì detto “vocabolario del secolo scorso”) per riesumare parole zombie che non capirebbe nessuno. Ciò non significa però che l’arbëresh sia senza speranza: la coesistenza con l’italiano e altre lingue non è necessariamente da considerarsi un male. Chi ha detto che mischiare due lingue è sbagliato? Sono d’accordo che è un peccato perdere i vocaboli dei nostri nonni per sostituirli con termini italiani, ma non dobbiamo provare vergogna a parlare o scrivere un misto di lingue. Il primo passo per salvaguardare l’arbëresh è scriverlo, e oggi sarebbe irrealistico provare a scriverlo senza chiedere all’italiano di fare da appoggio. Quindi ben venga questa miscela. Scriviamo oggi in un misto e domani avremo il motivo e il piacere di ripescare parole antiche. Se deleghiamo tutto al parlato non sentiremo mai il bisogno di ritrovare la nostra lingua: una società che impara a scrivere nella sua lingua è una società che si riscopre.
Per concludere
Ho qui dichiarato la mia visione che definirei in un certo senso programmatica. Chi si trova in sintonia con essa, avrà piacere a ritrovarla facendo uso degli strumenti di Arbor.
Per quanto riguarda la scrittura, ho già motivato ampiamente il mio approccio. Per il resto invece è bene notare che le decisioni prese sono valide a prescindere dalla volontà di realizzare una koiné: sono scelte motivate dalla convinzione che la linguistica, in quanto scienza, descriva e non prescriva. È estremamente necessario infatti descrivere l’arbëresh così come è parlato oggi, e non attaccarsi ad “arbëreshë utopici” lontani nel tempo e nello spazio. Un arbëresh morto o ancorato sull’albanese è magari più facile da individuare, ma poco utile. Bisogna restituire agli arbëreshë l’arbëresh che parlano, e non forzare su di loro qualcos’altro. Solo così le persone ci seguiranno e vedranno l’utilità dell’arbëresh scritto e vivo. Ciò significa impegnarsi molto di più per capire esattamente come conciliare l’influenza dell’italiano e delle lingue regionali, e potrebbero mancarci le risorse necessarie, ma l’alternativa purista (un purismo di convenienza magari, più che convinto) non sembra aver condotto a molto finora.
Spero che chiunque abbia avuto la pazienza di leggere questo mio scritto possa condividere. Sono consapevole che diverse delle opinioni qua espresse possono apparire controcorrente rispetto alla norma dei filologi arbëreshë, ma in realtà non lo sono poi così tanto: se alcuni credono che l'arbëresh vada artificialmente riportato alla sua forma più “pura” priva di prestiti italiani, io credo invece che questo processo vada lasciato avvenire naturalmente, e che il linguista debba svolgere il servizio di descrivere la lingua viva oggi senza stigma alcuno, creando così le condizioni perché gli arbëreshë si avvicinino davvero alla scrittura della propria lingua e abbiano poi la possiblità, se lo desidereranno, di riscoprire i vocaboli antichi. E, cosa più importante, ci unisce il desiderio di restituire dignità all'arbëresh e di averne a cuore la causa. Auspico quindi il contributo di tutti, a prescindere dal proprio punto di vista. Siam già pochi, dividersi sarebbe sciocco. Grazie.
Giulio Cusenza
Visita il sito di Arbor https://aarbor.web.app/
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